"LA VIOLENZA TEMPERATA"

Archetipi del mito e attualità nella scultura di Claudio Nicoli

"La sofferenza e il godimento come
sorgenti della scienza. Il serpente
ha offerto la conoscenza
a Adamo ed Eva. Le sirene hanno
offerto la conoscenza ad Ulisse.
Queste storie ci insegnano che l'anima
si perde cercando la conoscenza nel
piacere. E perché? Il piacere è forse
innocente a condizione che non vi si
cerchi la conoscenza. E' permesso
di cercarla soltanto nella sofferenza."
 

SIMONE WEIL
 

Dunque Atena avrebbe deciso finalmente anche lei di rilassarsi. Quale immane fatica sconfiggere la forza bruta di Arès, il dio della guerra.
Temperare con la sapienza ogni imprevedibile corso del Fato, gli umori capricciosi degli dei e la cecità delle umane passioni. E che sollievo poter abbandonare, anche solo per un istante, la rigida postura a cui l'eternità del mito l'ha obbligata. Spogliarsi d'un'ègida soffocante e sbarazzarsi di tutto: d'elmo, lancia e scudo. E sgranchirsi le membra. E smettere di vigilare sul sonno della città a lei consacrata. E non dover più atterire il nemico che appare rivolgendo contro di lui lo sguardo micidiale di Medusa.
Immagina, dunque, lo sculture Claudio Nicoli nel bronzo "Il riposo di Atena", se sia concessa anche a una dea così severa come lei un'occasione per ricrearsi. Se anche lei, la custode suprema della polis, possa prendersi una vacanza dal mito che l'ha generata. E allora non più in piedi matronale, ieratica e solenne; no, quasi giovinetta ce la immagina. Snella e aggraziata, qui seduta dinnanzi a noi, sorpresa per un istante nell'intimità d'un suo giardino celeste. Sollevata del suo divino mandato, non tocca più a lei di promuovere la macchina stessa della civiltà. D'ispirare le leggi del pensiero. O di mitigar con giustizia la mano di chi ci governa. O d'insegnar come possa svilupparsi senza danno ogni umana operosità.
Quel suo portamento così severo s'è disteso in una sobria eleganza. Il peplo che la fascia modula il suo corpo armonizzandolo in un ritmo leggiadro d'ombra e luce e di arcane geometrie. Guarda altrove, immersa in una "rèverie" liberatrice. Persino la civetta planatale sulla mano sembra distrarsi e lasciar cadere la solita attenzione di
rapace. Il dono della sapienza più non irradia o esplode prepotente, sembra che invece fiorisca come in un sogno o in un gioco. Da una simile immagine d'Atena, così rasserenante e trasgressiva rispetto all'immagine classica, consegnataci dalla tradizione iniziamo questo breve viaggio attraverso la poetica di Claudio Nicoli. Perché essa, senza dubbio, rappresenta un felice caso limite del suo mondo figurale e personifica l'utopia estrema a cui mira l'invenzione tutta la sua invenzione plastica.
Infatti quale sapienza del cuore, quale proiezione mitico-poetica consente di cogliere la dimensione reale dell'uomo contemporaneo e di esorcizzare la violenza che aggredisce ogni suo modo di vita? Tre sono le anime che nella scultura di Nicoli alimentano quest'intima aspirazione, determinando le scelte più incisive del suo linguaggio. Tre anime che coincidono con le tre tappe decisive della sua formazione culturale. La prima, tutta emiliana, Claudio bambino l' attinge dagli stessi umori della terra dov'è nato. Da quella "bassa" bolognese dove il prodigio di Gea fertile si rinnova sotto gli occhi senza fine. E' una terra che ai suoi occhi lievita come pane. Modellarla gli procura la prima immediata felicità. Quasi fossero piante, le figure gli germogliano fra le dita. E' una magia fitoforme che il maestro Ghermandi gli travasa con un senso spiccatissimo del movimento. La seconda s'afferma prepotente nell'egotismo dell'adolescenza. Quando con più vigore ciascuno di noi vorrebbe scolpire di sé un'immagine che eroicamente s'affermi nell'agone quotidiano. Quando più forte si reclama di sedare la propria sete di miti. Indelebile la poesia omerica delle letture liceali s'imprime allora nella fantasia. Nessuno sfugge al destino tragico assegnatole dagli dei, ma ognuno, attore e interprete di sé stesso, manifesta in quest'agone la sua tempra e i suoi limiti. L'ultima infine è derivata da una prospettiva ancor più simbolica e profonda del senso che deve per Claudio Nicoli ancora assumere la scultura. Si tratta d'una visione assimilata con la maturità proprio in terra toscana, e scaturisce da quel sentimento di mistero, sacralità e persistenza che pervade il mondo estrusco. Dove ogni figura scolpita sfugge quasi sempre ad una lettura solo statica e frontale. Mentre si direbbe che invece attraversi il confine instabile fra storia e mito; e che dalla sua genesi oscura tumultuosamente scaturisca verso un aldilà a cui il nostro desiderio la destina.
Allentare la tensione come accade alla vigile Atena, o spiccare il volo sempre più in alto come invece anche l'Icaro d'oggi agognerebbe? Sono dunque questi i due poli entro cui si sviluppa tutto l'impianto mitico-figurale di Claudio Nicoli. Come già ho avuto modo di sottolineare in un altro percorso sulla valenza simbolica della scultura attuale,"Il cosmo e l'uomo nelle forme dell'arte e della scienza," (San Giovanni in Persiceto, 2000). Che concepisca l'immagine dell'Icaro o dell'Angelo ribelle, il quale comunque presume di spingersi aldilà delle sue reali possibilità, il risultato plastico a cui Claudio Nicoli perviene è sempre quello d'un'esasperata tensione ritmico-emotiva. Entrambe queste sue due figure infatti deflagrano o s'inarcano, lacerate dal di dentro,
scisse, dilaniate da opposte forze che agitano la loro coscienza e tendono i loro muscoli in uno spasimo intollerabile. Anche questo suo Icaro è segnato da un tale tragico contrasto. E i suoi limiti non sono certamente soltanto di natura fisica. La barriera insormontabile che impedisce il suo volo, va còlta infatti nella evoluzione interiore dell'uomo e nella sua crescita spirituale. Così, mentre in alto: “nella mano spalancata e quasi supplicante, nel bel volto che spasima ed invoca, la figura trova una sua appropriata definizione anatomico-espressiva, in basso invece mantiene l'informe e sommaria rigidità d'uno zoccolo-tronco, d'un peso della materia che seguita ad inchiodarla senza scampo alla terra".
E vale veramente la pena di scorrere l'intero repertorio mitico-figurale di Claudio Nicoli proprio alla luce di questa tensione-torsione che agita dal di dentro questi suoi eroi omerico-biblico-post moderni. Che stravolge cavalli imbizzarriti, cavalieri che appena si reggono in sella, arceri che sfidano con dardi invisibili il vuoto, guerrieri ancora alla ricerca d'un controllo interiore che consenta loro l'esercizio della forza senza ignominia; amanti il cui corpo si allunga e si dilata come a formare un ponte che colmi il sentimento di distanza che li separa. Tensione-torsione dunque che a mano a mano si distende in quelle creature che il mito sembra avere prediletto per meglio lasciar trapelare la sua arcana saggezza o il segno d'una beltà innocente così estranea alla nostra percezione morale. Ed ecco allora una sorta di bestiario sacro: figure di gatti indolenti, rapaci notturni dallo sguardo dilatato, nudini di misteriose fanciulle in fiore la cui grazia affiora sempre con pudore alla luce.
Ma, attraverso un arco tematico così variegato, occorre innanzi tutto distinguere fra l'opposta dinamica plastica che la scultura di
Claudio Nicoli sempre assume fra forme aperte e chiuse.
Colgono infatti le prime soltanto frammenti d'ogni fantasma mitico evocato. Appaiono come figure mutilate o balenanti, spesso quasi svuotate d'ogni loro concreto volume e sottoposte ad una sorta di continua lievitazione. Irradiano, esplodono, o fluiscono. Le si direbbe che volino in una sorta di vuoto onirico, ancorate al suolo solo da un elemento imprevedibile e non portante della stessa figura. Danno luogo ad immagini che scatenano o sopportano una violenza incontenibile.E sono prima di tutto i volti degli eroi d'una guerra di Troia infinita ad apparirne lacerati. Così un frammento di volto "corazzato" sventola come una bandiera nel "L'elmo di Achille". E v'è una ritmica serrata fra parte viva e metallo, o nel taglio che incide sguardo e bocca, da cui irrompe una spietata volontà di potenza. Ad essa idealmente si controppone l'inutile resistenza del troiano, antagonista e vittima del Fato. In "L'elmo di Ettore" lo strumento di difesa serra e ripara il volto dell'eroe come la città le sue mura. Ma la parte scoperta sprofonda in un'espressione di mestizia senza fine. La struttura mentale e l'anima di Ettore paiono dunque coincidere con la forma stessa della città per cui è chiamato ad immolarsi.
Seppur massicce e avvolgenti, anche le nobili figure di re e di regina si presentano con il capo aperto. Sembrano qui riemergere come relitti-reperti d'un'archeologia immaginaria. E quanto evidente qui incide la lezione del modellato etrusco, soprattutto di quello più arcaico. Dove tutto è dominato da un andamento anticlassico. Dove lo scultore accentua lo squilibrio della composizione ed esaspera volutamente la spigolosità quasi tagliente delle superfici: questa concitazione plastica che scandisce il più intimo vigore delle membra, e attraversa persino i panneggi delle vesti e delle rocce su cui poggiano le figure. E' una tensione che sale proprio verso il punto del corpo mutilato. E spinge il nostro sguardo verso un oltre mancante. Si direbbe che le loro radici si siano smarrite in alto, in un cielo a noi ignoto.
E in forme aperte e convulse si rivelano anche le immagini delle creature- animali del bestiario mitico di Claudio Nicoli. E forse, attraverso di loro, si rivela l'ancor più drammatico sentimento con cui lo scultore guarda all'alterato e dissacrato rapporto odierno fra uomo e natura. Lo si coglie soprattutto in questi suoi cavalli rampanti il cui slancio resta, come già dicevamo, inchiodato da uno zoccolo duro alla terra. E differenti sono le risposte di quest'indomiti animali dinnanzi alla prepotenza d'una civiltà che smania di riscrivere le leggi della natura piuttosto che assecondarle. Si traducono in conati di forza e d'impotenza o in gesti di ribellione. Hanno nell'imbizzarrirsi un'espressione di terrore o sgomento. Sentono minacciata la loro corsa. Quasi tentano di sottrarsi allo sguardo umano, costruiti come sono anch'essi sull'esiguità del frammento, (Cavallo, 1996). Dove la monca visione si regge soltanto su di un'esile gamba-stelo. Il suo intero infatti sempre ci sfugge. Come inafferrabile ci rimane la parvenza d'ogni mito e la fluidità del desiderio che vorrebbe catturarla.
Resta allora la figura scolpita in bilico fra assenza e presenza. E Claudio Nicoli ne affida l'anatomia mancante, la parte corporea liberata o taciuta alla plasticità del vuoto. E tutta l'irruenza dello scontro fra uomo e natura è posta in estrema evidenza nel contrasto che sempre qui risulta fra cavallo e cavaliere. Tema classico questo che trova senz'ombra di dubbio nelle strutture così solide e chiuse, così tese e invocanti di Marini il suo punto nevralgico di riferimento. E pur anche ad esse ispirandosi, Nicoli sottopone la soluzione tradizionante del gruppo equestre ad un senso di precarietà volumetrica ancor più balenante. In "Cavallo e cavaliere, 1991" il ritmo verticale gamba-lancia su cui si regge l'intera figura non basta a compensarne la postura stravolta. Anzi accentua nel cavaliere il rischio d'imminente caduta. Ribelle alle nostre offese, E al nostro maldestro dominio tecnologico, non ci sta forse il cavallo-natura disarcionando? E nell'altro gruppo equestre ancor più originale del 1995 tutto l'impianto si regge e fiorisce, come un fiore mostruoso e surreale, da un'unico stelo. E come accade in "Cavallo e cavaliere con scudo, 1996", soltanto quando le energie dell'uomo e della natura paiono coniugarsi in unica direzione, le fasce muscolari dei loro corpi tesi si
fondono ritmicamente sprigionando un'energia sconosciuta. Anche se in verità ciò che domina fra i due attori è quasi sempre una tragica dissonanza. Anche se nell'inevitabile corsa ad ostacoli che sono chiamati a correre assieme, parrebbe ogni loro salto librarli come creature libere nel vuoto. Ed invece come Nicoli ci dimostra in una delle sue soluzioni più originali "Cavallo e cavaliere, 1997", come la stessa dinamica di questo loro volo presunto risulti rigorosamente inquadrata dentro i limiti d'uno spazio fatale. Infatti seppure sospeso nel vuoto, esso ci appare sbarrato come una vera prigione.
Forme chiuse, anche se frastagliate e concitatissime, si mostrano pure quelle dei tori. Immagine di potenza generativa e di forza primordiale, la mitologia classica ravvisa nella creatura uomo-toro il guardiano d'un centro interdetto, d'un tesoro sacro, o d'una porta inviolabile. Claudio Nicoli invece trasfigura anch'essi in segni d'una natura ferita dall'uomo alle sue radici. Sono masse di vita invocante, che sta per stramazzare a terra. Sollevano il collo in alto, lanciando disperati muggiti, mentre la luce rimbalza sui piani sconnessi del corpo, ("Toro", 1996). Oppure ancor più sinteticamente traducono nell'emblema d'un sesso dirompente l'estrema violenza d'un desiderio che non può o che non sa come appagarsi, ("Toro imbizzarrito, 1996")
Una saggezza arcana trapela infine, come una conquista, soltanto nelle figure chiuse e riposate di certe creature animali, capaci di traversare con il loro sguardo lo spessore delle tenebre. Sono gatti, gufi, civette, sparvieri la cui dimestichezza con la sacrale profondità della notte , li rende così assorti e raccolti nel loro consapevole mistero, ("Gatto", 1997)" Una linea avvolgente, incisiva e perfettamente conclusa li risolve plasticamente, mettendo in risalto nell'arte di Nicoli un dominio assoluto del disegno.
E la violenza immedicata, la violenza di questo nostro mondo attuale che stenta a trovare in una stabile proiezione mitica un suo necessario rispecchiamento, o che difficilmente siamo in grado di temperare per via di poesia, sembra al fine risparmiare i teneri nudini femminili che Claudio Nicoli sorprende distesi nel sonno, o in piedi pudicamente carezzati dalla luce. La linea che ne modula il profilo, racchiude come in uno scrigno la loro grazia. Piuttosto che snidarla in un eccesso di sonora sensualità, restituisce loro l'incanto d'un silenzio purificato. Quello stesso silenzio di cui si servono le spirali delle conchiglie per restituirci, mitica, ogni voce di sirena.

Pietrasanta, 12 febbraio 2001
GIUSEPPE CORDONI